Nel nome del valore

Dallo storico Giovanni Cecini riceviamo questo interessante articolo sul centenario dell’Istituto del Nastro Azzurro che volentieri pubblichiamo.

Se chiedessimo a una persona qualsiasi cosa gli verrebbe in mente pensando al Nastro Azzurro, molto probabilmente la risposta, che riceveremmo, sarebbe: la birra! Invece oggi vogliamo ricordare qualcosa di estremamente più solenne per la nostra Patria. Infatti esattamente cento anni fa, il 26 marzo 1923, venne deciso di porre inizio ufficiale alle attività dell’Istituto del Nastro Azzurro fra i decorati al valor militare. Sorto già nel febbraio precedente come Legione Azzurra, il consesso reducistico auto-costituito ebbe sin da subito come principale scopo quello di rinsaldare il patrimonio morale e di sacrificio, che i combattenti avevano espresso nel recente conflitto 1915-18. Potevano essere iscritti come soci tutti coloro che avessero ricevuto una decorazione al valor militare, il cui nastrino era appunto azzurro come le insegne dei Savoia e prima di loro cromia dell’iconografia mariana, da cui il conte Amedeo VI aveva tratto le proprie insegne in occasione della sua partecipazione alle crociate.

Fu così che l’azzurro accompagnò prima le istituzioni dei domini sabaudi, poi del Regno d’Italia e infine della Repubblica Italiana. Da ciò, infatti, deriva il medesimo colore per tutti gli sportivi nazionali, per le insegne dell’inquilino del Quirinale anche dopo il 1946 e da ultimo per le fasce degli ufficiali dei Corpi e delle Forze armate e dello Stato.

Tornando invece alla realtà del 1923, furono Ettore Viola (medaglia d’oro al valor militare) e il pittore Maurizio Barricelli a scegliere proprio la data del 26 marzo, perché coincidente con l’istituzione nel 1833 delle decorazioni al valor militare per i combattenti del Regno di Sardegna. La consacrazione ufficiale poi sarebbe avvenuta il 21 aprile successivo, quando lo stesso presidente del Consiglio dei ministri, Benito Mussolini, consegnò all’Istituto le insegne nazionali. Il completamente istituzionale venne realizzato infine il 31 maggio 1928, quando il Nastro Azzurro venne proclamato ente morale.

A distanza di un secolo oggi come ieri l’Istituto è uno dei tasselli fondamentali del patriottismo nazionale, che in ogni circostanza ha espresso il più alto senso del dovere e dell’onore per chi porta le stellette al bavero. Per tutti gli altri cittadini un motivo di orgoglio, volendo riflettere sul significato che il colore azzurro possa rappresentare per la Nazione italiana, anche fuori alle più popolari competizioni sportive.

I complici

Perché l’Italia ha perso rovinosamente la seconda guerra mondiale? Generalmente si attribuisce questa sconfitta all’impreparazione delle Forze Armate (mancata meccanizzazione, ad esempio) e agli errori strategici della guida politica (le campagne di Grecia e di Russia lo dimostrano).

Per meglio capire dunque la politica italiana di quei tempi, in occasione dei 100 anni dalla “Marcia su Roma” (28 ottobre 1922), arriva nelle librerie l’ultimo interessante libro dell’affermato storico Giovanni Cecini, tra l’altro collaboratore di questo Blog, autore anche del noto e pregevole libro I Generali di Mussolini (nonché di molte altre importanti opere storiche tra cui I soldati ebrei di Mussolini).

Il libro s’intitola I gerarchi fascisti ed è edito dalla casa editrice Newton Compton. Si tratta di una completa rassegna biografica dei principali gerarchi del fascismo, i veri complici dell’affermazione di un regime politico che porterà il Paese al disastro della guerra.

Tra i profili biografici dei gerarchi, si raccomanda in particolare la lettura di quelli dedicati a Emilio De Bono e Italo Balbo, figure di rilievo militare nell’ambito dei gerarchi del Ventennio.

Un libro imperdibile per chi vuole conoscere e capire uno dei periodi più importanti della nostra storia nazionale recente.

Il comandante 007

Dal giovane e noto storico Giovanni Cecini riceviamo questo bell’articolo sull’agente 007 Comandante della Royal Navy che volentieri pubblichiamo.

Tra i vari anniversari tondi, che cadono nell’anno 2022, vi sarà anche quello del sessantesimo dall’uscita del primo capitolo cinematografico della saga di 007. Il 5 ottobre 1962 fu infatti la data, in cui esordì nelle sale britanniche la pellicola Dr. No, nota in Italia con il titolo Agente 007 Licenza d’uccidere. Da quel momento nacque un mito in celluloide – che attraverso una serie di 25 film ufficiali, più un impressionante seguito di apocrifi, imitazioni, citazioni e parodie – ha reso il personaggio di James Bond noto ad almeno quattro generazioni di spettatori e appassionati.
Non tutti, però, sanno che l’agente segreto più famoso al mondo ha un’origine militare. Il suo creatore, lo scrittore e giornalista inglese Ian Fleming, ebbe un rapporto alterno con il mondo delle Forze Armate. All’età di nove anni Ian perse il padre, maggiore di cavalleria, morto il 20 maggio 1917 in combattimento sulla Somme. Seguì per il ragazzo un lungo e agitato percorso di studi e di esperienze di vita, condite da piccoli scandali e dall’incallito desiderio di cercare nuovi stimoli. Studiò per un breve periodo anche all’Accademia militare di Sandhurst e successivamente alle Università di Monaco di Baviera e di Ginevra. Tuttavia né la disciplina marziale, né il rigore accademico lo entusiasmarono, trovando piuttosto nella scrittura mondana la propria passione. Fu così che divenne giornalista prima per l’agenzia Reuters e poi per il Times, iniziando tra l’altro corrispondenze da Berlino e da Mosca.
In questo turbine di eclettiche esperienze, l’occasione più segnante della propria vita fu, però, la Seconda guerra mondiale. Arruolato nel 1939 nella Royal Navy, egli entrò ben presto nell’intelligence navale. Rispetto al personaggio letterario, che lo avrebbe anni dopo reso celebre e ricco, tuttavia Fleming non fu un’agente segreto sul campo. Egli si dimostrò invece un valido ed esperto ufficiale di collegamento con le diverse istituzioni della Difesa britannica e in seguito con le omologhe americane, venendo in poco tempo promosso capitano di corvetta. Acquisita ormai la reputazione di eminenza grigia, Fleming divenne anche un valido organizzatore, tanto da essere impegnato nella pianificazione di alcuni raid, funzionali alle operazioni anfibie alleate in Mediterraneo e nella Manica.
Concluso il conflitto, Fleming tornò alla vita da borghese, proseguendo la propria carriera giornalistica, ma intuendo come dovesse trovare un diversivo alla «monotonia» della vita coniugale. Fu così che dal 1952 egli decise di dedicare del tempo alla scrittura di un libro all’anno, inventando un personaggio, in cui egli voleva rappresentava la versione eroica di sé stesso. Prendendo a prestito il nome di un affermato ornitologo americano, nacque così l’agente segreto James Bond. Anche quest’ultimo aveva un passato militare, essendo un comandante della Royal Navy e anche lui era una sorta di avventuriero, dedito a ogni tipo di vizio, ma sempre retto da un’incrollabile fedeltà verso Sua Maestà britannica.
In questo modo, anno dopo anno, Fleming scrisse in tutto dodici romanzi, più diverse serie di racconti e novelle. Ben presto anche la televisione e il cinema si interessarono dell’agente 007, tanto che appunto dal 1962 iniziò la fortunata serie, che praticamente tutti conoscono e che ancora oggi tiene incollati milioni di giovani e vecchi affezionati.
Importante poi citare come il legame con la Royal Navy sia sempre ben presente e radicato: in numerose pellicole James Bond è infatti chiamato con il suo grado militare di “comandante” e quasi tutti gli interpreti ufficiali della saga hanno indossato almeno una volta il tipico blazer con i tre galloni con giro di bitta alla manica. Anzi, potremmo chiudere con due piccole curiosità. Nel 1966 nel film Si vive solo due volte venne organizzato addirittura un finto funerale, in cui la “salma” dell’agente segreto veniva onorato solennemente dai marinai di una nave inglese a largo di Hong Kong, per poi essere salvato in mare e ricomparire in una perfetta uniforme all’interno di un sommergibile. Infine, nel settembre 2021 l’attore Daniel Craig – 007 in cinque pellicole dal 2006 al 2021 – è stato addirittura nominato comandante ad honorem della Royal Navy. Tutto ciò dimostra quindi come un personaggio cinematografico così popolare possa essere altresì così simbolico, tanto da entrare addirittura con grande determinazione e rispetto nello spesso austero mondo militare.

Responsabilità

Il Generale Mario Roatta (1887 – 1968) è stato uno dei protagonisti della storia militare italiana della prima metà del Novecento.

Ufficiale pluridecorato nella Grande Guerra, Capo del S.I.M. (Servizio Informazioni Militari), Capo dei volontari italiani (che si batterono a fianco del Generale Francisco Franco) nella guerra civile spagnola, Comandante della 2^ Armata in Jugoslavia nonchè della 6^ Armata in Sicilia, il Generale Roatta concluse la sua carriera come Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, trovandosi ad essere tra i responsabili delle Forze Armate italiane al momento dell’armistizio dell’8 settembre 1943.

Accusato di crimini di guerra, di resa colposa e della mancata difesa di Roma (nonchè di essere coinvolto nell’omicidio degli antifascisti fratelli Rosselli nel 1937 in Francia), entrò in latitanza nel 1945. Successivamente verrà prosciolto da ogni accusa. Rientrato dalla Spagna in Italia nel 1967 morirà a Roma l’anno successivo.

Ha lasciato due opere scritte con propositi difensivi: Otto milioni di baionette (Mondadori, Milano, 1946) e Sciacalli addosso al S.I.M. (Mursia, Milano, 2018).

La sua figura e azione possono essere approfondite nel bel libro dello storico (e collaboratore di questo Blog) Giovanni Cecini I Generali di Mussolini (Newton Compton Editori, Roma, 2016, 2^ edizione 2019).

Carabinieri da eliminare

Il 7 ottobre ricorrono i 75 anni dalla deportazione in Germania dei Reali Carabinieri ad opera delle truppe occupanti tedesche. Un episodio poco noto, che costituisce un esempio tipico della fedeltà e del sacrificio, che anche un corpo di polizia militare come l’Arma dei Carabinieri ha espletato e continua ad espletare nei propri oltre due secoli di storia istituzionale. A ricordo di tale esperienza, inizio di quel lungo cammino, che ha riguardato centinaia di migliaia di Internati Militari Italiani (IMI), è uscito per i tipi delle Edizioni Chillemi il volume di Enrico Cursi “Carabinieri da eliminare”. Proponiamo qui la postfazione dello storico Giovanni Cecini, amico del nostro blog, che ci ha indicato l’importanza di questa ricorrenza storica.

Alla fine della presente narrazione, che ha sviluppato tutte le sfaccettature dell’azione dei militari dell’Arma contro l’arbitrio e la sopraffazione della Wehrmacht, sgorga nell’animo del lettore un grande senso di pietà e di riconoscenza. Nelle pagine del volume di Enrico Cursi, sembrano rivivere le intense iniziative del legittimo Comando Generale e delle dipendenti unità centrali o territoriali, volte tutte a mantenere il pieno controllo della delicata situazione, creatasi in quella calda estate 1943. L’arresto di Mussolini prima e la successiva uscita dalla guerra dell’Asse poi ebbero infatti come immediato effetto lo sbandamento psicologico di una Nazione, prima che quello materiale, dovuto anche alla pronta e calcolata reazione bellica tedesca.
I carabinieri, catapultati come tutti gli altri militari e il Paese intero alla prova dei fatti in un sostanziale quanto larvato ribaltamento d’alleanza, hanno preso sin da subito le armi e condotto uno scontro aperto contro l’aggressività germanica. Come non mai, nelle intense ore dell’8 e 9 settembre si confermò quell’esistenziale binomio funzionale, derivante dal doppio ruolo di arma combattente e di corpo di polizia, affidato sin dalla sua costituzione all’Arma dei Carabinieri. In ciò il Comando Generale (finché esso ebbe vita) poté contare sul valido supporto di ufficiali dall’alto profilo morale e professionale. Grazie ad essi i comandi territoriali hanno potuto reggere anche di fronte alle reiterate minacce tedesche, volte tutte a depotenziare con gradualità l’autorevolezza e la saldezza di spirito dei militari dell’Arma. Questo ultimo bieco proponimento non ebbe il risultato sperato. I carabinieri oggetto di narrazione, sia che fossero in servizio attivo permanente o richiamati, hanno dato invece un loro incorrotto e valido contributo alla salvaguardia dell’ordine pubblico e della continuità dello Stato. Emblematico il tortuoso salvataggio della bandiera di guerra dell’Arma. Tutto ciò avvenne nonostante la grande confusione, derivante dall’intempestiva proclamazione dell’armistizio, nonostante le repentine (e anzi spesso preventive) misure draconiane tedesche e infine nonostante l’abbandono della Capitale delle più alte cariche politiche e militari dello Stato legittimo.
L’ordine di disarmo, disposto dalle ricostituite istituzioni fasciste, divenne il momento delle scelte: accettare passivamente gli eventi o predisporre nel miglior modo un’azione ostruzionistica verso la prepotenza e l’arbitrio dei comandi germanici. Una volta chiusa l’esperienza di resistenza attiva contro i tedeschi e la seguente cessazione delle ostilità, siglata dalle residuali istituzioni monarchiche presenti nella Capitale, i carabinieri gestirono l’emergenza in modo composto e votato sempre alla salvaguardia della popolazione e dell’ordine pubblico. Creando un reticolo di collegamenti ufficiali od ufficiosi, le unità territoriali ebbero il grande coraggio di tenere testa all’ex alleato, sempre più galvanizzato dalla rapida occupazione di Roma, delle zone limitrofe e dalla liberazione di Mussolini.
Il successivo disarmo fu l’anticamera dell’eliminazione dei carabinieri, come ci indica il titolo del volume. Il preciso racconto della deportazione diventa quindi una struggente carrellata di testimonianza di quel che i carabinieri dovettero patire, ancor prima di essere costretti nei campi detentivi. Già sapendo che la destinazione sarebbe stata la Germania, il lettore è stato condotto lentamente e con un crescendo di commozione al seguito di quei poveretti, vessati da mille tribolazioni. Il lungo peregrinare, causato in tempo di guerra dalle difficili linee di comunicazione, si trasformò in un’anticipata agonia. Alcuni di loro, percorrendo in carri bestiame un percorso tortuoso e allucinante (durato ben 7 giorni!), che ha toccato tra l’altro Firenze, Bologna, Modena, Genova, Ventimiglia, Marsiglia, Lione e infine Monaco di Baviera, arrivarono stremati ancor prima di iniziare il loro inferno personale. Infatti solo allora in qualità di internati militari, ossia una finzione giuridica che toglieva agli italiani i diritti riconosciuti invece dalle convenzioni internazionali ai prigionieri di guerra, prendeva avvio la lunga marcia verso l’ignoto.
Insomma la narrazione ci ha offerto uno spaccato inedito, ma non per questo avulso dalla proverbiale missione di fedeltà, insita nell’istituzione dei Carabinieri. La scelta, di ritenere l’onore verso il giuramento prestato come massima direttrice delle proprie azioni, testimonia oggi come ieri l’esempio più concreto di come gli appartenenti alla Fedelissima esplichino il proprio servizio fino all’estremo sacrificio. Per molti dei carabinieri di quel settembre-ottobre 1943 significò la morte, per altri l’atroce destino nei campi di prigionia, per altri ancora la fuga verso un futuro di ulteriore lotta, questa volta in clandestinità. Se oggi viviamo in una Repubblica libera e democratica, lo dobbiamo anche a questo loro silenzioso sacrificio.

Giovanni Cecini

Un’importante domanda

I Generali devono stare nelle retrovie (nei Posti Comando) a pianificare e condurre la battaglia o in prima linea con i propri uomini a guidare l’azione?

A questa interessante domanda offre un’approfondita risposta il giovane (ma già molto conosciuto agli addetti ai lavori per le sue precedenti ricerche e pubblicazioni) storico Giovanni Cecini nel suo ultimo (e appena uscito) libro Generali in trincea – Comandanti eroici italiani nella Prima Guerra Mondiale Edizioni Chillemi, Roma 2017.

Per mezzo di venti accurate biografie, il libro racconta le vicende dei Generali italiani che meritarono la Medaglia d’oro al valor militare per il loro eroismo in combattimento.

Ritroviamo dunque le storie, tra le altre, dei Generali Antonino Cascino, Antonio Cantore e Maurizio Gonzaga del Vodice (quest’ultimo, per chi scrive, rappresentante indiscusso della più nobile tradizione militare italiana) che, con il loro comportamento valoroso in battaglia, sono assurti a miti della storia dell’esercito italiano.

Finalmente un bel libro da leggere e invitare a leggere (anche per rispondere all’importante iniziale domanda)!

Il giudizio finale

Nelle conclusioni del suo bel libro “I Generali di Mussolini”, già presentato ai lettori di questo Blog lo scorso 15 novembre, l’autore Giovanni Cecini arriva ad un giudizio finale sulla nostra sconfitta nell’ultima guerra che io desidero proporre ai lettori, sottolineando il fatto che ramente ho trovato parole più chiare e, se possibile, così definitive.

“(…) Non volendo mettere in dubbio le singole capacità militari di ciascuno, collettivamente i generali italiani furono un disastro. E questo non tanto perché essi non valessero, ma perché preferirono anteporre l’obbedienza politica al dovere di essere comandanti di uomini e pianificatori di una guerra sostenibile. Al contempo, Mussolini non esitò a circondarsi di gente chiaccherata, che pur di non essere continuamente ricattata divenne succube di un megalomane. A ciò si aggiunse la sovrapposizione di molti e autonomi centri di potere, che ruppero le gerarchie e infransero la razionalità di un Comando Supremo. (…) Sta di fatto che la guerra fu persa, fu persa male e nessuno pagò veramente per tanta ignavia. Solo i morti non poterono più parlare. Pertanto, molti di quelli che ottennero onori e denaro dal fascismo, ebbero poi la faccia tosta di scrivere o dichiarare di esserne stati vittima. (…) Se la giustizia legale o morale non è riuscita a fare il suo corso, almeno può valere oggi la memoria per discernere chi fece il proprio dovere, da chi invece il proprio personalissimo interesse.” (da Giovanni Cecini, I Generali di Mussolini, Newton&Compton Editori, Roma 2016, pagg. 522- 523).

Resta sempre la viva speranza che queste parole possano destare nei lettori quella necessaria riflessione senza la quale gli errori del passato sono fatalmente destinati a ripetersi.

 

Un ottimo consiglio

Per celia, qualche tempo fà, ho tempestato i miei amici con una semplice domanda (più di storia generale che di storia militare): “dimmi il nome di tre Generali italiani della seconda guerra mondiale”. I miei pazienti amici hanno esitato a rispondere. I nomi di Graziani, Badoglio o Messe erano a stento ricordati.

L’ultimo libro del giovane  (ma già affermato) storico Giovanni Cecini, “I Generali di Mussolini”, Newton&Compton Editore, Roma 2016, è dunque un ottimo consiglio per chiunque -compreso i miei cari amici- voglia conoscere e/o approfondire le vicende dei responsabili militari durante il ventennio fascista, avendo così un quadro più chiaro di un periodo storico che ancora influenza, sotto molteplici aspetti (compreso quello militare), il nostro presente.

36 generali, 3 Forze armate, 7 fronti di guerra. Attraverso le biografie dei più rappresentativi tra i comandanti militari del Paese, un’inedita narrazione della seconda guerra mondiale. Carriere, intrighi, rivalità, vittorie e sconfitte: tali sono gli ingredienti di una storia controversa e avvincente. Questi sono i generali di Mussolini. Questi sono coloro la cui conoscenza è indispensabile per abbozzare un giudizio su una delle vicende più tragiche della nostra storia recente.

Un libro semplicemente imperdibile perché illuminante!

http://www.newtoncompton.com/libro/i-generali-di-mussolini

Ufficiale, Storico e Gentiluomo

In occasione del centenario della nascita dell’ammiraglio Gino Galuppini, indimenticabile Capo Ufficio Storico della Marina militare, ricevo e volentieri pubblico una testimonianza del giovane e promettente storico Giovanni Cecini in ricordo di questo straordinario ufficiale, storico e gentiluomo.

Un ricordo personale in memoria dell’amico Gino Galuppini

(Bologna 1914 – Roma 2010)

 

di Giovanni Cecini

 

In più di un’occasione ho curato la stesura di alcuni racconti memorialistici del generale del Genio Navale e poi ammiraglio Gino Galuppini. Per questo e per i motivi che mi accingo a descrivere, colgo l’occasione per ricordarlo in occasione del centenario della sua nascita, avvenuta il 27 dicembre 1914. L’amicizia che mi legava a questo eclettico personaggio era recente, ma posso dire che la stima e la devozione reciproca furono una sorta di colpo di fulmine, nonostante le quasi tre generazioni anagrafiche, che ci separavano.

Conobbi l’Ammiraglio alla fine del 2004, quando come impiegato di un istituto di credito lavoravo in una filiale di Piazza di Spagna, dove lui era affezionato cliente da diversi decenni. Per lui venire in banca era una sorta di rito, nonostante abitasse a Monte Mario e il percorso rigorosamente in autobus fino a Piazza Augusto Imperatore e poi a piedi non fosse certo dei più comodi per un “giovanotto” della sua età. Molto spesso, da quando gli confidai che come passione mi interessavo di storia militare e mi era quindi capitato di frequente di consultare i suoi volumi, mi veniva a trovare anche senza una motivazione specifica, che interessasse il rapporto cliente-bancario. Lo scopo delle sue visite era quindi sempre più spesso finalizzato a intrattenersi in confronti scientifici, trovando in me un «valido collaboratore per le ricerche» e «amico», come ebbe a scrivermi nelle dediche di due suoi libri, che conservo ancora con gelosia nella mia biblioteca personale.

Questa sua propensione a sentire le mie opinioni sulle sue più recenti attività, mi riempiva di grande orgoglio, anche perché in più di un’occasione mi chiese di aiutarlo in alcune ricerche, in prevalenza da svolgere presso l’emeroteca della Biblioteca nazionale centrale di Castro Pretorio. La sua grande passione era come ovvio la storia della Marina e le sue uniformi. Per questo uno dei suoi lavori in cui venni immerso fu la poco nota vicenda della festa della Forza Armata, che ricadeva in occasione dell’anniversario dell’impresa navale di Premuda (10 giugno 1918), in cui alcune formazioni leggere di natanti italiani misero a segno un’impresa memorabile contro un convoglio corazzato austro-ungherese. La celebrazione voluta dal fascismo a partire dal 1939 e in quella circostanza organizzata con molto sfarzo, cadde presto nell’oblio, data la coincidenza l’anno successivo con l’ingresso nelle ostilità anche del nostro Paese.

Altro argomento caro all’Ammiraglio, per la sua esperienza in cattività durante il Secondo conflitto mondiale, fu la sorte dei prigionieri di guerra italiani dispersi ai quattro angoli della Terra. Le sue ricerche non potevano che concentrarsi sul contesto indiano, dove lui “soggiornò” a spese dell’Impero britannico – come soleva dire con raffinata ironia – per oltre quattro anni in mano degli inglesi. L’esperienza fu per lui un’autentica lezione di vita. Non solo perché ebbe modo di immergersi con dedizione nello studio della cultura e delle abitudini britanniche, che gli saranno fondamentali nel dopoguerra quando andrà a collaborare in ambito NATO proprio con i nemici di allora, ma soprattutto perché in quel contesto coloniale accrebbe la sua consapevolezza della nobile missione, che aveva intrapreso indossando la divisa italiana con le stellette al bavero. Se mi si permette un paragone, nei suoi racconti orientali immaginavo un’ardita somiglianza con il protagonista della pellicola Il ponte sul fiume Kwai, magistralmente interpretato da Alec Guinness.

Galuppini – come il colonnello Nicholson – nonostante fosse un prigioniero era e rimaneva sempre un ufficiale e questa consapevolezza lo portò a dimostrare in ogni circostanza quel fair play tanto caro ai cittadini di Sua Maestà. Poteva essere privato della sua libertà, ma nessuna guerra o nessun nemico poteva alienare dal suo animo il desiderio di mettersi al servizio degli altri e dare il suo contributo ai quei valori, che travalicano i confini nazionali e le etnie umane. L’allora tenente Galuppini, durante la cattività indiana, fu direttore di mensa e poi ufficiale pagatore, tutte attività svolte con serietà e professionalità, tanto da meritare il rispetto e la fiducia degli inglesi, sia nel periodo in cui era loro avversario, sia a maggior ragione quando ne divenne per scelta cobelligerante, accettando senza remore, l’adesione al Regno del Sud.

Questi episodi, ascoltati con attenzione anche più di una volta, mi offrirono l’occasione di conoscere un personaggio molto più umano rispetto all’ufficiale generale e al grande storico della Marina, che avevo conosciuto sui volumi monografici dello Stato Maggiore.

Grazie a tale clima amichevole coltivai questo reciproco afflato, anche al di fuori della mia sede lavorativa, che ci aveva fatto conoscere in modo così accidentale e inaspettato. Spesso andai a casa sua per avere consigli su alcuni miei studi e una volta anche in occasione di una mia intervista – che mai riuscì a vedere perchè mandata in onda postuma su Rai Storia – relativa alla mitica figura del suo antesignano generale del Genio Navale Umberto Pugliese.

Spinto da un nobile desiderio di conservare la memoria storica per le generazioni successive, una volta, con profondo sacrificio, venne anche a casa mia, quando gli promisi di fargli vedere alcuni “pezzi” della mia collezione di militaria inerenti la Regia Marina. In quella occasione ebbe un brusco sussulto quando gli mostrai due capi d’abbigliamento, che lui subito classificò di poco antecedenti la Grande Guerra: una giacca «uso di bordo» da ufficiale superiore e un berretto da aspirante ufficiale medico, entrambi indumenti che lui aveva descritto nei suoi volumi uniformologici, ma che mai e poi mai era riuscito a reperire dal vivo.

Rimasi di stucco quando a distanza di molti mesi, una volta che mi accompagnò al Centro Alti Studi per la Difesa a trovare il generale Massimo Coltrinari, l’Ammiraglio disse al nostro interlocutore: «Pensi che Giovanni ha in collezione una rarissima giacca della Regia Marina di prima che io nascessi!» Questo, come altri episodi, mi riempivano di gioia il cuore, perchè venivano vissuti con la massima franchezza e naturalezza da colui che io consideravo uno dei mostri sacri della storia militare nazionale.

Così mi piace ricordarlo, soprattutto perché in ufficio cercavo di soddisfare sempre con dinamismo gli altri clienti, pur di avere modo di conversare più a lungo con lui, magari per parlare del “maltese” Carmelo Borg Pisani o per soffermarci sul grado di caporale d’onore della Milizia, che oltre a Benito Mussolini anche Adolf Hitler indossò nel suo viaggio in Italia nel maggio del 1938. In queste piacevoli conversazioni spesso carpivamo anche l’attenzione dei colleghi della filiale, che notavano tra me e l’Ammiraglio – nonostante i 65 anni che ci separavano – un’autentica identità di vedute.

A conclusione di questo racconto, mi piace ricordare la sua dignità anche di fronte alla morte, che percepiva come incombente, considerata la sua non comune vitalità quasi centenaria. Quando veniva a conoscenza della scomparsa di qualche suo coetaneo o addirittura di qualcuno molto più giovane di lui con sincerità commentava sulla sua età anagrafica: «Sono affetto da una malattia, quale la vecchiaia, che è stravagante voler curare».

In questo modo mi sembra corretto terminare questo breve ricordo con due episodi in cui diede prova della sua tipica ironia, quasi britannica. Quando ricevetti in eredità la biblioteca di un parente, prematuramente scomparso, che era stato suo allievo all’Accademia Navale di Livorno all’inizio degli anni Cinquanta, ebbi modo di far vedere all’Ammiraglio non solo alcuni suoi vecchi testi di costruzione navale, ma anche un annuario del 1950 dell’Accademia, al cui interno egli era persino ritratto nel gruppo del corpo docente. Sfogliandolo, arrivò a una foto, che raffigurava la cappella religiosa. Con sarcasmo commentò: «Ai tempi miei quella era la palestra dei cadetti!» Erano passati però già oltre cinquant’anni dall’edizione di quella pubblicazione, che lui considerava di tempi recenti.

Altra occasione di grande ilarità fu quando gli parlai di un mio studio inerente la spedizione nel primo dopoguerra del Regio Esercito nella zona di  – quella che un tempo veniva chiamata – Adalia sulla costa dell’Anatolia meridionale. Mi raccontò che era stato proprio ad Antalya negli anni Cinquanta all’interno di una missione Nato, finalizzata alla costruzione di un’istallazione militare turca. Commentò: «All’epoca non c’era nulla nei dintorni del centro urbano, eravamo gli unici forestieri che ci imbarcavamo per andare ad Antalya. Oggi mi dicono che pullula di strutture turistiche ed è una tra le mete più ambite dai villeggianti stranieri. Come cambiano i tempi!»

Militari italiani in Turchia 1919 -1923

Da qualche anno, presso lo Stato Maggiore della Difesa, esiste un Ufficio storico che sta svolgendo un lavoro importante per la conoscenza della storia militare italiana.

Prova ne è quest’ultimo libro del giovane e promettente storico Giovanni Cecini Militari italiani in Turchia (1919-1923), Ufficio Storico dello Stato Maggiore della Difesa, Roma 2014.

Nella primavera del 1919, l’Italia aveva deciso di inviare un Corpo di Spedizione militare per assicurarsi il controllo della zona costiera dell’Anatolia e quindi il dominio dell’Egeo,  nel cui contesto già aveva occupato il Dodecaneso durante la guerra italo-turca 1911 – 1912.

Ma il progetto fallì: il movimento del generale Mustafa Kemal Atatürk (1881 – 1938) riuscì ad assicurare l’unità territoriale turca contro ogni tentativo d’espansione straniera (non solo  italiana). Pertanto, nel 1923, l’Italia ritirò il proprio contingente che però nel frattempo era riuscito a farsi molto ben volere dalla popolazione locale.

Si tratta di un libro, accademico e divulgativo insieme, su un aspetto poco conosciuto della politica estera italiana del primo dopoguerra. Il notevole apporto iconografico (con molte fotografie dell’epoca pubblicate per la prima volte) ne rendono poi particolarmente piacevole e interessante la lettura.

Un’indicazione bibliografica preziosa per i lettori di questo Blog.