Una vita da raccontare

Giorgio Faré è stato un giovane milanese marinaio che ha combattuto con i MAS (Motoscafi Armati Siluranti) nelle acque del Mar Nero durante la campagna di Russia. Catturato dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, divenne un Internato Militare Italiano (IMI) in Germania condividendo con altri circa 600.000 connazionali una storia di privazioni e sofferenza di cui si parla sempre troppo poco.

Max Ronchi col suo bel libro tratteggia una vita ricca di avvenimenti e scandita da una intensità esistenziale straordinaria: le vicende personali del giovane milanese s’intrecciano con la Grande Storia di cui lui sarà testimone e narratore.  Non mancano nel libro episodi leggeri come la conoscenza e la breve frequentazione di Faré della grande attrice Alida Valli che offrono al lettore un racconto simpatico che strappa un sorriso.

Per il resto, è la testimonianza appassionata di un uomo che ha vissuto le tempeste del suo tempo con coraggio, dignità e speranza, sole virtù a cui ognuno  può guardare nell’affrontare anche i difficili tempi di oggi che sono comunque ben poca cosa rispetto a quelli di ieri attraversati da uomini e donne della tempra di Giorgio Faré.

Nel mare e nel vento

Il 12 febbraio 1944 il Piroscafo Oria con migliaia di soldati italiani destinati ai campi d’internamento in Germania faceva naufragio nel mare davanti all’isolotto di Patroklos in Grecia. Più di 4.000 militari italiani perirono (insieme all’equipaggio norvegese e ai soldati tedeschi di scorta). Pochi furono i superstiti.

Un piccolo monumento su di un promontorio a Saronicco li ricorda. La bandiera italiana che garrisce al vento li rappresenta e vivifica. Si accompagna alla bandiera (greca) del mare che li custodisce e a quella (europea) che dalla loro tragedia nacque.

Sia il loro ingiusto sacrificio sempre monito per una giusta speranza di pace per tutti.

https://www.difesa.it/SMD_/Eventi/Pagine/GreciaMonumentoCadutiPiroscafoOria.aspx

Le quattro resistenze

Il movimento della resistenza nazionale che concorse alla liberazione dell’Italia dall’occupazione nazifascista può ben dividersi in quattro resistenze (senza una graduatoria tra loro):

  • la resistenza, anche all’estero, delle Forze Armate italiane (e in alcuni casi, anche con la partecipazione dei civili) contro i nazisti in seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943;
  • la guerra partigiana 1943 -1945;
  • la partecipazione delle Forze Armate nazionali alla campagna militare d’Italia degli alleati anglo – americani;
  • la resistenza passiva degli Internati Militari Italiani – IMI nei Lager nazisti.

Ognuna di queste resistenze necessita di essere studiata, tramandata e ricordata per una comprensione giusta e completa del movimento di liberazione in Italia.

Fuori da questo elenco ma sempre importante di essere ricordata, perchè attiene alla vita dell’uomo nel suo complesso, è la resistenza civile di chi sceglie in ogni momento di difendere le luci del bene dall’avanzare delle tenebri del male.

PS Il Sole 24 Ore di domenica 26 aprile 2020 offre questa (condivisibile) definizione della Festa della Liberazione:

È il giorno simbolo della vittoriosa lotta di resistenza militare e politica attuata dalle forze armate alleate, dall’Esercito Cobelligerante italiano ed anche dalle forze partigiane durante la seconda guerra mondiale a partire dall’8 settembre 1943 contro il governo fascista della Repubblica Sociale Italiana e l’occupazione nazista.

Tributo di sangue

La recente notizia della prossima istituzione a Milano del Museo Nazionale della Resistenza, mi offre l’occasione di riflettere sull’apporto offerto dai militari italiani alla lotta di liberazione in Italia.

Dal sito istituzionale dell’Esercito (www.esercito.difesa.it) traggo i tragici numeri che testimoniano il tributo di sangue pagato dalla Forza Armata nella guerra partigiana e nella resistenza passiva degli Internati Militari Italiani (IMI) catturati e deportati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943:

/…/circa 12.0000 caduti tra militari inquadrati nelle unità regolari e nelle bande partigiane durante la Guerra di Liberazione; infine, circa 60.000 internati militari morti nei campi di concentramento./…/ http://www.esercito.difesa.it/storia/Pagine/1943-1945.aspx

Non smettiamo mai di ricordare chi ha creduto coraggiosamente ad un domani migliore quando era follia sperare per la maggioranza degli italiani.

Per approfondire l’argomento, essenziali sono i libri editi dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito:

I Militari nella guerra partigiana in Italia 1943 – 1945 di Alfonso Bartolini e Alfredo Terrone (1998);

I Militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943 – 1945 di Gerhard Schreiber (1992).

Carabinieri da eliminare

Il 7 ottobre ricorrono i 75 anni dalla deportazione in Germania dei Reali Carabinieri ad opera delle truppe occupanti tedesche. Un episodio poco noto, che costituisce un esempio tipico della fedeltà e del sacrificio, che anche un corpo di polizia militare come l’Arma dei Carabinieri ha espletato e continua ad espletare nei propri oltre due secoli di storia istituzionale. A ricordo di tale esperienza, inizio di quel lungo cammino, che ha riguardato centinaia di migliaia di Internati Militari Italiani (IMI), è uscito per i tipi delle Edizioni Chillemi il volume di Enrico Cursi “Carabinieri da eliminare”. Proponiamo qui la postfazione dello storico Giovanni Cecini, amico del nostro blog, che ci ha indicato l’importanza di questa ricorrenza storica.

Alla fine della presente narrazione, che ha sviluppato tutte le sfaccettature dell’azione dei militari dell’Arma contro l’arbitrio e la sopraffazione della Wehrmacht, sgorga nell’animo del lettore un grande senso di pietà e di riconoscenza. Nelle pagine del volume di Enrico Cursi, sembrano rivivere le intense iniziative del legittimo Comando Generale e delle dipendenti unità centrali o territoriali, volte tutte a mantenere il pieno controllo della delicata situazione, creatasi in quella calda estate 1943. L’arresto di Mussolini prima e la successiva uscita dalla guerra dell’Asse poi ebbero infatti come immediato effetto lo sbandamento psicologico di una Nazione, prima che quello materiale, dovuto anche alla pronta e calcolata reazione bellica tedesca.
I carabinieri, catapultati come tutti gli altri militari e il Paese intero alla prova dei fatti in un sostanziale quanto larvato ribaltamento d’alleanza, hanno preso sin da subito le armi e condotto uno scontro aperto contro l’aggressività germanica. Come non mai, nelle intense ore dell’8 e 9 settembre si confermò quell’esistenziale binomio funzionale, derivante dal doppio ruolo di arma combattente e di corpo di polizia, affidato sin dalla sua costituzione all’Arma dei Carabinieri. In ciò il Comando Generale (finché esso ebbe vita) poté contare sul valido supporto di ufficiali dall’alto profilo morale e professionale. Grazie ad essi i comandi territoriali hanno potuto reggere anche di fronte alle reiterate minacce tedesche, volte tutte a depotenziare con gradualità l’autorevolezza e la saldezza di spirito dei militari dell’Arma. Questo ultimo bieco proponimento non ebbe il risultato sperato. I carabinieri oggetto di narrazione, sia che fossero in servizio attivo permanente o richiamati, hanno dato invece un loro incorrotto e valido contributo alla salvaguardia dell’ordine pubblico e della continuità dello Stato. Emblematico il tortuoso salvataggio della bandiera di guerra dell’Arma. Tutto ciò avvenne nonostante la grande confusione, derivante dall’intempestiva proclamazione dell’armistizio, nonostante le repentine (e anzi spesso preventive) misure draconiane tedesche e infine nonostante l’abbandono della Capitale delle più alte cariche politiche e militari dello Stato legittimo.
L’ordine di disarmo, disposto dalle ricostituite istituzioni fasciste, divenne il momento delle scelte: accettare passivamente gli eventi o predisporre nel miglior modo un’azione ostruzionistica verso la prepotenza e l’arbitrio dei comandi germanici. Una volta chiusa l’esperienza di resistenza attiva contro i tedeschi e la seguente cessazione delle ostilità, siglata dalle residuali istituzioni monarchiche presenti nella Capitale, i carabinieri gestirono l’emergenza in modo composto e votato sempre alla salvaguardia della popolazione e dell’ordine pubblico. Creando un reticolo di collegamenti ufficiali od ufficiosi, le unità territoriali ebbero il grande coraggio di tenere testa all’ex alleato, sempre più galvanizzato dalla rapida occupazione di Roma, delle zone limitrofe e dalla liberazione di Mussolini.
Il successivo disarmo fu l’anticamera dell’eliminazione dei carabinieri, come ci indica il titolo del volume. Il preciso racconto della deportazione diventa quindi una struggente carrellata di testimonianza di quel che i carabinieri dovettero patire, ancor prima di essere costretti nei campi detentivi. Già sapendo che la destinazione sarebbe stata la Germania, il lettore è stato condotto lentamente e con un crescendo di commozione al seguito di quei poveretti, vessati da mille tribolazioni. Il lungo peregrinare, causato in tempo di guerra dalle difficili linee di comunicazione, si trasformò in un’anticipata agonia. Alcuni di loro, percorrendo in carri bestiame un percorso tortuoso e allucinante (durato ben 7 giorni!), che ha toccato tra l’altro Firenze, Bologna, Modena, Genova, Ventimiglia, Marsiglia, Lione e infine Monaco di Baviera, arrivarono stremati ancor prima di iniziare il loro inferno personale. Infatti solo allora in qualità di internati militari, ossia una finzione giuridica che toglieva agli italiani i diritti riconosciuti invece dalle convenzioni internazionali ai prigionieri di guerra, prendeva avvio la lunga marcia verso l’ignoto.
Insomma la narrazione ci ha offerto uno spaccato inedito, ma non per questo avulso dalla proverbiale missione di fedeltà, insita nell’istituzione dei Carabinieri. La scelta, di ritenere l’onore verso il giuramento prestato come massima direttrice delle proprie azioni, testimonia oggi come ieri l’esempio più concreto di come gli appartenenti alla Fedelissima esplichino il proprio servizio fino all’estremo sacrificio. Per molti dei carabinieri di quel settembre-ottobre 1943 significò la morte, per altri l’atroce destino nei campi di prigionia, per altri ancora la fuga verso un futuro di ulteriore lotta, questa volta in clandestinità. Se oggi viviamo in una Repubblica libera e democratica, lo dobbiamo anche a questo loro silenzioso sacrificio.

Giovanni Cecini

Il grande rifiuto

L’obiettivo politico e militare della Repubblica Sociale Italiana (RSI), Stato fantoccio fascista nel Centro- Nord dell’Italia, era quello di costituire, con l’aiuto determinante e interessato della Germania nazista, le Forze armate repubblicane fasciste con i più di 600.000 internati militari italiani (IMI) catturati dopo l’8 settembre 1943 e rinchiusi nei campi di concentramento tedeschi. Incaricato di realizzare questo importante progetto fu il generale Emilio Canevari (1892 – 1966), Segretario generale del Ministero della Difesa della RSI retto dal Maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani (1882 – 1955). Per Canevari le Forze Armate della RSI avrebbero anche dovuto garantire la sovranità della RSI sul proprio territorio; ma in questo modo Canevari si pose in contrasto con gli alleati tedeschi che ne richiesero la destituizione (ottenendola) dopo solo pochi mesi dall’assunzione dell’incarico. Per buffa ironia della sorte, Canevari non voleva altro che applicare il pensiero dei grandi teorici militari tedeschi, appreso grazie ai suoi approfonditi studi della storia militare della Germania, di cui fu all’epoca apprezzato divulgatore.

L’obiettivo di costituire le nuove FF.AA. fasciste non fu peró raggiunto (furono costituite solo 4 delle 25 divisioni previste, per lo più formate da giovani delle classi di leva 1924 -1925 arruolati obbligatoriamente) perché la grande maggioranza degli internati militari si rifiutó di aderire alla RSI. Se avessero aderito, la campagna d’Italia avrebbe avuto ben altro esito, considerando l’inferiorità numerica di cui avrebbero sofferto gli alleati di fronte ai nazifascisti. Questo rifiuto é giustamento riconosciuto come un atto di resistenza passiva dei militari italiani, atto tanto più valoroso quanto più si considerano le condizioni di vita miserevoli a cui i nostri internati erano costretti nei Lager.

Le ragioni di questo rifiuto sono molteplici. Anzitutto, il ripudio della guerra fascista per stanchezza e disillusione, dopo tre anni di duri combattimenti segnati dalla sconfitta nella maggioranza dei teatri operativi (Africa Orientale, Nordafrica e Russia). Vi era poi la difesa della propria dignità di uomini e soldati, umiliata proprio da coloro che chiedevano un’adesione alla loro guerra. A queste ragioni, si aggiungeva per gli ufficiali (particolarmente richiesti a causa della loro scarsità nelle ricostituite Forze Armate fasciste) la fedeltà alle Istitutioni dello Stato monarchico, in primis l’istituzione militare, la cui tradizione e continuità offrivano un appiglio di dignità personale e motivazionale superiore allo sconforto seguito ai tragici eventi dell’8 settembre.

Bisogna anche riconoscere che, con il tempo, gli stessi tedeschi abbandonarono il progetto di arruolare gli internati militari, preferendo il loro più proficuo utilizzo come manodopera da impiegare nelle fabbriche e campagne al posto degli operai e contadini tedeschi impegnati sui diversi fronti di guerra.

La ricostruzione di una nuova Italia ebbe dunque inizio (anche) con un grande rifiuto dettato dalla coscienza di uomini coraggiosi che spesso pagarono con la vita questa loro scelta: ben 50.000 furono infatti gli internati militari italiani che morirono per cause diverse nel periodo 1943 -1945.

La tragedia necessaria

Il grande storico Mario Isnenghi, in un libro uscito qualche anno addietro e da poco riedito (La tragedia necessaria -Da Caporetto all’otto settembre – Il Mulino, Bologna 2013), ha definito una “tragedia necessaria” quanto accaduto in Italia dopo l’otto settembre 1943 all’annuncio dell’armistizio con gli alleati anglo- americani. Una “tragedia necessaria” (come anche la sconfitta di Caporetto nell’autunno del 1917) affinché gli italiani prendessero coscienza di sé, della realtà e (re)agissero in modo forte e unito.

La reazione all’armistizio dell’otto settembre e all’invasione/occupazione dell’Italia da parte delle forze naziste supportate da quelle fasciste, fu generale e determinata, e non minoritaria come talvolta qualcuno dice. Non ci fu solo la resistenza armata dei partigiani (che pure non pochi problemi crearono all’invasore) inquadrati nel Corpo Volontari della Libertà ma anche quella dei giovani renitenti alla leva fascista nel Nord, dei 650.000 Internati militari italiani (IMI) in Germania (di questi 50.000 non fecero ritorno), delle Forze Armate regolari italiane fedeli al Re Vittorio Emanuele III° comandate dal Maresciallo d’Italia Giovanni Messe, dei semplici cittadini (mi viene in mente il padre dello scrittore Alberto Asor Rosa, Alessandro,  che a Roma nascondeva nelle proprie scarpe i volantini antifascisti…).

Insomma, alla sconfitta politica e militare dell’otto settembre 1943, fece seguito un risveglio delle coscienze collettiva e individuale che contribui alla vittoria non solo contro i nazifascisti ma sopratutto a favore di quella dignità nazionale su cui sarebbe risorta l’Italia.

Il dovere della memoria

Nei giorni scorsi, come ogni anno, nel cimitero militare italiano d’onore di Amburgo – Öjendorf, si è svolta la celebrazione del giorno dell’Unità nazionale e festa delle Forze Armate,

In presenza delle Autorità consolari italiane, delle Autorità civili tedesche, dei rappresentanti delle Forze Armate italiane e tedesche nonché della numerosa comunità italiana residente ad Amburgo e nel Nord della Germania, sono state deposte delle corone di fiori al monumento che ricorda i caduti italiani in guerra.

In particolare, sono stati ricordati i 5.839 internati civili e militari che riposano in questo cimitero militare italiano d’onore (in Germania ve ne sono altri tre: Berlino, Francoforte sul Meno e Monaco di Baviera).

Molto significativa è stata anche la presenza di una Guardia d’onore della Bundeswehr, che ha reso gli onori militari durante la cerimonia.

La memoria è un dovere che conserva l’importanza del sacrificio di chi ci ha preceduto, illumina il cammino di tutti noi verso il futuro e ci preserva dagli errori (tragici) del passato.

Restiamo memori.

“Non muoio neanche se mi ammazzano!” Giovannino Guareschi

Tra le conseguenze più tragiche dell’armistizio dell’8 settembre 1943, firmato dall’Italia con gli Alleati per porre fine all’impari lotta che durava ormai da anni, vi fu la cattura da parte tedesca, nei Balcani e sul territorio metropolitano, di circa 600.000 soldati italiani e il loro successivo trasporto in campi di concentramento in Germania o nei Paesi occupati dai tedeschi.

In seguito alla nascita, il 23 settembre 1943, della Repubblica Sociale Italiana (RSI), stato fantoccio capeggiato da Benito Mussolini, i prigionieri di guerra italiani vennero considerati Internati militari italiani (Italienische Militär Internierten – IMI) e non più sottoposti alle convenzioni internazionali ma ad una inesistente “tutela giuridica” della RSI.

L’obiettivo politico e militare della RSI era quello di ricostituire le Forze armate repubblicane fasciste con gli Internati militari. Questo obiettivo non fu raggiunto perchè la stragrande maggioranza degli Internati militari si rifiutò di aderire alla RSI. Appare quindi evidente il peso strategico di questo rifiuto, soprattutto sul fronte italiano. Era stato infatti calcolato di costituire con questi soldati ben 25 Divisioni, una massa di uomini, in maggioranza veterani, che avrebbe fatto pendere il piatto della bilancia a favore dei tedeschi e fascisti, con conseguenze inimmaginabili per l’Italia e per gli Alleati, duramente impegnati nella risalita della penisola. Il rifiuto dunque ad arruolarsi nelle Forze armate repubblicane fasciste diede un contributo decisivo alla vittoria alleata nella campagna militare e quindi alla liberazione del nostro Paese.

Gli IMI furono rimpatriati al termine del conflitto e tra questi molti divennero famosi nel dopoguerra. Giovannino Guareschi (1908 – 1968), il creatore della saga di “Peppone e Don Camillo”, è tra i più famosi IMI e sul periodo d’internamento ha scritto anche un libro pubblicato nel 1949 “Diario clandestino 1943 – 1945”.

Ma molti non tornarono. Circa 50.000 morirono, per cause diverse, durante l’internamento.

Ad onorare la memoria del loro sacrificio, all’Internato ignoto, civile e militare, è stata conferita la medaglia d’oro al valor militare con la seguente motivazione

Militare fatto prigioniero o civile perseguitato per ragioni politiche o razziali, internato in campi di concentramento in condizioni di vita inumane, sottoposto a torture di ogni sorta, a lusinghe per convincerlo a collaborare con il nemico, non cedette mai, non ebbe incertezze, non scese a compromesso alcuno; per rimanere fedele all’onore di militare e di uomo, scelse eroicamente la terribile lenta agonia di fame, di stenti, di inenarrabili sofferenze fisiche e soprattutto morali.

Mai vinto e sempre coraggiosamente determinato, non venne meno ai suoi doveri nella consapevolezza che solo così la sua patria un giorno avrebbe riacquistato la propria dignità di nazione libera.

A memoria di tutti gli internati il cui nome si è dissolto, ma il cui valore ancor oggi è esempio e redenzione per l’Italia. 1943 – 1945”.

Il loro indimenticabile sacrificio non fu vano e contribuì ad un Italia nuova e senz’altro migliore.