Un uomo di buona volontà

Il 31 dicembre 1880 nasceva a Uniontown in Pennsylvania, George Cattlett Marshall, Generale dell’US Army, Capo di Stato Maggiore dell’esercito USA durante la Seconda Guerra Mondiale, Segretario di Stato americano dal 1947 al 1949 e ideatore del Piano Marshall per la ripresa economica dell’Europa postbellica (European Recovery Program) distrutta da uno dei conflitti peggiori che la Storia ricordi.

Il Generale Marshall è stato un uomo di buona volontà che è opportuno ricordare alle soglie del nuovo anno che arriva nella fervida speranza che il 2024 possa far emergere, in ogni campo, altri Leader animati dalla buona volontà verso il bene comune.

Con questo sentito auspicio, auguro a tutti le lettrici e lettori Storia&Soldati (ormai avviato a festeggiare i dieci anni di vita) un sereno 2024 ancora insieme! Guten Rutsch ins neue Jahr!

Sotto altra bandiera

La Wehrmacht (comprese le Waffen SS) arruolò, durante il secondo conflitto mondiale, cittadini di stati esteri sia come ausiliari che come effettivi. Si trattava generalmente di volontari di paesi occupati dalla Germania (Jugoslavia, Francia, Belgio ad esempio) o prigionieri di guerra, specie provenienti dai territori dell’Unione Sovietica (Ucraina, Bielorussa).

Un caso particolare è rappresentato dalla Spagna che offrì un contingente di volontari per il fronte russo che formò una divisione regolare della Wehrmacht, la 205^ Divisione di fanteria detta “Divisione Azzurra” (División Azul) in onore del colore dei falangisti spagnoli, comandata dal Generale Augustin Muňoz Grandes prima e dal Generale Emilio Esteban Infantes Martín poi. La Divisione venne poi sciolta nell’ottobre del 1943 e la maggior parte dei suoi componenti fece ritorno in Spagna entro la fine dell’anno (più di un migliaio di spagnoli però continuò a combattere con i tedeschi contro i sovietici fino al marzo 1944). Gli ultimi prigionieri di guerra spagnoli dei sovietici fecero ritorno a casa solo alla fine degli anni cinquanta.

Il numero totale di cittadini stranieri arruolati nella Wehrmacht e nella Waffen-SS durante la seconda guerra mondiale fu di circa un milione e mezzo. 


Storia e colori

Tra la vasta iconografia riferita a Napoleone Bonaparte, merita un posto di rilievo War. The Exile and the Rock Lampet del pittore inglese Joseph Mallord William Turner (1775 -1851) oggi esposto alla Tate Gallery di Londra.

Il quadro venne dipinto nel 1842 dopo il rientro in Francia nel 1840 delle spoglie dell’imperatore, morto in prigionia britannica sull’isola di Sant’Elena il 5 maggio 1821.

L’opera immagina il Grande Corso esule sulla lontana isola dell’oceano atlantico e l’uso di accesi colori, tipico del Turner, offre una grande impressione del tutto a colui che guarda.

Turner aveva vissuto tutta la turbolenta epoca napoleonica ed aveva addirittura fatto un viaggio di studio e lavoro in Francia nel 1802 dopo la Pace di Amiens tra Gran Bretagna e Francia. Per questo ritenne di dover immortalare uno dei momenti più significativi della vicenda umana (più che politica) di un protagonista indiscusso del suo tempo che probabilmente Turner, geniale artista ribelle e anticonformista, aveva anche ammirato.

Ci riuscì realizzando uno dei capolavori della pittura del XIX secolo.

Secondi a nessuno

Nella notte tra il 18 e 19 dicembre 1941, 6 incursori di Marina a bordo di 3 Siluri a Lenta Corsa – SLC, provenienti dal sommergibile Scirè, penetrarono nel porto di Alessandria d’Egitto dove era ormeggiata la flotta britannica del mediterraneo e affondarono le due navi da battaglia HMS Queen Elizabeth (33.550 tonnellate) e HMS Valiant da (27.500 tonnellate) e danneggiarono la petroliera Sagona (7750 tonnellate) e il cacciatorpediniere Jervis (1690 t). Un’impresa epica e straordinaria che destò l’ammirazione di tutti, nemici compresi, dimostrando che i marinai italiani non erano secondi a nessuno!

Questi i nomi dei valorosi marinai:

Tenente di Vascello Luigi Durand de la Penne

Capo Palombaro Emilio Bianchi

Capitano delle Armi Navali Vincenzo Martellotta

Capo Palombaro Mario Marino

Capitano del Genio Navale Antonio Marceglia

Sottocapo Palombaro Spartaco Schergat

Furono tutti decorati di Medaglia d’oro al valor militare.

Con questa impresa idealmente pareggiammo i conti con i britannici che nella Notte di Taranto dell’11 – 12 novembre 1940 danneggiarono (anche gravemente) tre navi da battaglia e un incrociatore italiani con un attacco di aerosiluranti.

L’Associazione per l’onore e il ricordo

Ritornando con la mente agli eventi di questo 2023 che si avvia a conclusione, uno dei più importanti, per chi scrive, è stato l’incontro con l’Associazione Nazionale Divisione Acqui – A.N.D.A. con cui ho condiviso un memorabile viaggio, dal 12 al 14 ottobre u.s., a Cefalonia in occasione dell’80° anniversario del sacrificio della Divisione Acqui.

L’A.N.D.A.,fondata nel 1945, rappresenta ed organizza tutti i superstiti dell’eccidio di Cefalonia e Corfù del settembre 1943 ed ha lo scopo di onorare e ricordare le vittime di quei tragici eventi. Sono soci dell’Associazione Nazionale Divisione Acqui i superstiti, i congiunti dei caduti, dei reduci deceduti in patria e dei superstiti e tutti coloro che abbiano interesse alla vita ed alle finalità della stessa. La sede dell’Associazione Nazionale Divisione Acqui è a Verona ed ha 22 sezioni provinciali che coprono pressoché tutto il territorio nazionale.

Ho potuto constatare e apprezzare di persona la dedizione che l’A.N.D.A. pone nell’adempimento dei suoi compiti associativi e mi sono ancor più convinto di come sia essenziale e vitale, per la conoscenza dei fatti e la cura della memoria dei medesimi, l’esistenza di una tale benemerita associazione.

Non è l’unica, tra le associazioni d’Arma e combattentische, a svolgere questa meritoria opera nei confronti della nostra Storia nazionale ma certamente unici sono i tragici eventi per la quale è sorta, eventi che l’A.N.D.A. concorre a mantenere vivi nel ricordo affinché chi ha sacrificato la vita nel compimento del proprio dovere in quel drammatico settembre 1943 (e anche dopo) non venga mai dimenticato.

Le altre guardie svizzere

Nei secoli passati, specialmente nel periodo del Rinascimento, i soldati svizzeri erano considerati i migliori d’Europa.

Nel 1653 la Guardia di Palazzo della Repubblica di Lucca (istituita nel 1532 e composta originariamente da giovani nobili non toscani) venne attribuita a 70 svizzeri cattolici del Cantone di Lucerna.

Le Guardie svizzere rimasero a Lucca fino al 1799 (anno in cui la Repubblica venne abolita dai francesi) sulla base delle apposite capitolazioni rinnovate nel 1666 e 1748.

Di questa esperienza storica è traccia il Cortile degli Svizzeri del Palazzo Ducale di Lucca, luogo deputato oggi alle celebrazioni ufficiali della bella e illustre città toscana.

Il leone di Finlandia

Dal Colonnello Vincenzo Stella riceviamo e volentieri pubblichiamo questo interessante articolo relativo al Maresciallo Carl Gustaf Emil Mannerheim, figura di prima grandezza nella storia della Finlandia.

Il Maresciallo Carl Gustaf Emil Mannerheim, nato nel 1867 nel Granducato di Finlandia (a quel tempo parte dell’Impero Russo) è una rara figura di stratega militare e statista. Mannerheim ha avuto un ruolo fondamentale nell’ottenere e preservare l’indipendenza della Finlandia nei momenti più tumultuosi del secolo scorso.

Allo scoppio della rivoluzione russa, si presentava, per la Finlandia, l’occasione per dichiarare, il 6 dicembre 1917, l’indipendenza dall’Impero Russo. Tuttavia anche in Finlandia, nel 1918, scoppiò la guerra civile tra i “Rossi”, i socialisti, e i “Bianchi”, gli anti-socialisti. Mannerheim, nominato comandante in capo dell’Armata Bianca, riuscì ad unificare fazioni disparate, dimostrò intelligenza strategica e attuò efficaci tattiche militari che portarono alla vittoria dell’Armata Bianca, realizzando l’indipendenza della Finlandia.

Nel novembre del 1939 la Finlandia si trovò nuovamente ad affrontare sfide eccezionali. Sebbene avesse dichiarato la sua neutralità dovette subire l’invasione dell’Unione Sovietica (cambiano i nomi ma la sostanza è sempre la stessa!) – la Guerra d’Inverno – la quale reclamava alcuni territori. Nonostante l’inferiorità numerica e di armamenti, Mannerheim, nominato, a 72 anni, Comandante in Capo della Forze di Difesa Finlandesi, implementò una strategia difensiva che sfruttando il terreno accidentato della Finlandia utilizzava tattiche di guerriglia e restò sempre attento a salvaguardare la vita dei suoi soldati, evitando di fargli correre rischi inutili.  La “Linea Mannerheim”, una serie di posizioni difensive fortificate, divenne il simbolo della resistenza finlandese. Solo dopo la sconfitta della Polonia l’Unione Sovietica riuscì a spostare altre numerose truppe per rinforzare la superiorità numerica e avere la meglio sulle forse finlandesi, a cui era mancato il richiesto aiuto dell’Inghilterra e della Francia. Sebbene la Finlandia con la firma del Trattato di Mosca del 12 marzo 1940 dovette cedere parte del territorio all’Unione Sovietica, l’abilità tattica di Mannerheim e la resilienza delle forze finlandesi assicurarono che il nucleo della nazione rimanesse intatto.

Inevitabilmente nel 1941, la Finlandia, nel tentativo di riconquistare i territori perduti, si avvicinò alla Germania e ne divenne cobelligerante al fine di ricevere importanti rifornimenti di armi e supporto industriale. Mannerheim condusse quindi, dal 1941 al 1944, la Guerra di Continuazione approfittando dell’invasione nazista dell’Unione Sovietica. Tuttavia, quando le sorti della guerra si rivolsero contro le potenze dell’Asse, Mannerheim riconobbe la necessità di un ritiro strategico. Mannerheim osservò attentamente l’interessante parallelo con l’Italia, dove un simile approccio fu tentato iniziando con la destituzione di Mussolini il 25 aprile 1943, e aspettò di vedere la reazione di Hitler. Pose, più tardi, la stessa attenzione alle azioni di Hitler contro un simile tentativo dell’Ungheria. Pertanto facendo attenzione ad evitare qualsiasi rappresaglia tedesca, incluso un possibile bombardamento di Helsinki, che non era protetta, nella tarda estate del 1943, con l’approvazione della leadership politica finlandese e il sostegno del Regno Unito e degli Stati Uniti, iniziò un’abile negoziazione per una pace separata con l’Unione Sovietica che si concretizzò il 19 settembre 1944, preservando l’indipendenza della Finlandia, evitando l’occupazione e la sorte dei paesi dell’Europa orientale dopo il 1945.

Una delle condizioni dell’armistizio prevedeva che i finlandesi dichiarassero guerra alla Germania e disarmassero o cacciassero i soldati tedeschi che si trovavano in Lapponia. Questa condizione fu simile a quanto si dovette fare in Italia e in Romania dopo essersi arresi: combattere per liberare il proprio territorio dalle forze tedesche. Pertanto dal 28 settembre a novembre del 1944 i finlandesi combatterono una terza guerra: la Guerra di Lapponia.

Sotto l’egida di Mannerheim, la Finlandia riuscì così a preservare la propria sovranità, la propria democrazia parlamentare e la propria economia di mercato al prezzo di perdite territoriali limitate.

L’eredità di Mannerheim, che ha plasmato il destino della Finlandia, va oltre le sue imprese militari. Dopo la guerra divenne presidente della Finlandia, servendo dal 1944 al 1946.

La giovane speranza perduta

Oggi 80 anni fà, il 1° dicembre 1943, moriva, saltando su una mina mentre cercava di superare le linee nemiche per raggiungere Roma e unirsi alla Resistenza, il giovane Sottotenente Giaime Pintor (1919 -1943).

Giaime Pintor è un nome, ai giorni nostri, ignoto alla maggioranza delle persone e perlopiù dimenticato da chi lo ha, direttamente o indirettamente, conosciuto, Ma Giaime Pintor è stato una delle giovani speranze della cultura italiana a cavallo degli anni ’30 e ’40 e per questo va ricordato, soprattutto nel giorno della sua morte.

Giornalista, scrittore e traduttore (soprattutto di opere tedesche; memorabili sono le sue traduzioni delle poesie di Rainer Maria Rilke), nonostante la giovane età, Giaime Pintor entrò a far parte degli intellettuali raccolti intorno alla Casa Editrice Einaudi di Torino forgiandone lo spirito critico e innovatore.

Ufficiale dell’esercito italiano (lo zio era il Generale d’Armata Pietro Pintor) e fervente patriota, dopo l’8 settembre 1943 prese contatti con gli Alleati per poter essere infiltrato oltre le linee nemiche e partecipare così alla lotta contro l’invasore. Ispirandosi agli ideali del Risorgimento, Giaime Pintor riteneva tale lotta una necessità prioritaria e dunque ineludibile per chiunque.

Prima di partire per il suo ultimo e fatale viaggio, Giaime scrisse una lettera al fratello Luigi (1925 -2003), che diventerà poi una nota figura politica della Sinistra italiana (fu tra i fondatori del quotidiano Il Manifesto) sempre comunque devoto alla memoria del fratello morto: la riporto come testamento spirituale di un giovane che credette in un futuro che non visse e che pure contribuì a realizzare.

Carissimo, Napoli 28 novembre 1943

parto in questi giorni per un’impresa di esito incerto: raggiungere gruppi di rifugiati nei dintorni di Roma, portare loro le armi e le istruzioni. Ti lascio questa lettera per salutarti nel caso che non dovessi tornare e per spiegarti lo stato d’animo in cui affronto questa missione. I casi particolari che l’hanno preceduta sono di un certo interesse biografico, ma sono troppo complicati da riferire: qualcuno degli amici che è da questa parte vi potrà raccontare come nella mia fuga da Roma sia arrivato nei territori controllati da Badoglio, come abbia passato a Brindisi dieci pessimi giorni presso il Comando Supremo e come, dopo essermi convinto che nulla era cambiato fra i militari, sia riuscito con una nuova fuga a raggiungere Napoli.

Qui mi è stato facile tra gli amici politici e i reduci dalla emigrazione trovare un ambiente congeniale e ho contribuito a costituire un Centro Italiano di Propaganda che potrebbe avere una funzione utile e che mi ha riportato provvisoriamente alle mie attività normali e a un ritmo di vita pacifico. Ma in tutto questo periodo è rimasta in sospeso la necessità di partecipare più da vicino a un ordine di cose che non giustifica i comodi metodi della guerra psicologica; e l’attuale irrigidirsi della situazione militare, la prospettiva che la miseria in cui vive la maggior parte degli italiani debba ancor peggiorare hanno reso più urgente la decisione. Così dopo il fallimento, per ragioni indipendenti dalla nostra volontà, di altri progetti più ambiziosi ma non irragionevoli, ho accettato di organizzare una spedizione con un gruppo di amici. È la conclusione naturale di quest’ultima avventura, ma soprattutto il punto d’arrivo di un’esperienza che coinvolge tutta la nostra giovinezza. 

In realtà la guerra, ultima fase del fascismo trionfante, ha agito su di noi più profondamente di quanto risulti a prima vista. La guerra ha distolto materialmente gli uomini dalle loro abitudini, li ha costretti a prendere atto con le mani e con gli occhi dei pericoli che minacciano i presupposti di ogni vita individuale, li ha persuasi che non c’è possibilità di salvezza nella neutralità e nell’isolamento. Nei più deboli questa violenza ha agito come una rottura degli schemi esteriori in cui vivevano: sarà la «generazione perduta » che ha visto infrante le proprie «carriere»; nei più forti ha portato una massa di materiali grezzi, di nuovi dati su cui crescerà la nuova esperienza.

Senza la guerra io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari, avrei discusso i problemi dell’ordine politico, ma soprattutto avrei cercato nella storia dell’uomo solo le ragioni di un profondo interesse, e l’incontro con una ragazza o un impulso qualunque alla fantasia avrebbero contato per me più di ogni partito o dottrina. Altri amici, meglio disposti a sentire immediatamente il fatto politico, si erano dedicati da anni alla lotta contro il fascismo. Pur sentendomi sempre più vicino a loro, non so se mi sarei deciso a impegnarmi totalmente su quella strada: c’era in me un fondo troppo forte di gusti individuali, d’indifferenza e di spirito critico per sacrificare tutto questo a una fede collettiva. Soltanto la guerra ha risolto la situazione, travolgendo certi ostacoli, sgombrando il terreno da molti comodi ripari e mettendomi brutalmente a contatto con un mondo inconciliabile.

Credo che per la maggior parte dei miei coetanei questo passaggio sia stato naturale: la corsa verso la politica è un fenomeno che ho constatato in molti dei migliori, simile a quello che avvenne in Germania quando si esaurì l’ultima generazione romantica. Fenomeni di questo genere si riproducono ogni volta che la politica cessa di essere ordinaria amministrazione e impegna tutte le forze di una società per salvarla da una grave malattia, per rispondere a un estremo pericolo. Una società moderna si basa su una grande varietà di specificazioni, ma può sussistere soltanto se conserva la possibilità di abolirle a un certo momento per sacrificare tutto a un’unica esigenza rivoluzionaria. È questo il senso morale, non tecnico, della mobilitazione: una gioventù che non si conserva «disponibile», che si perde completamente nelle varie tecniche, è compromessa. A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo posto in una organizzazione di combattimento.

Questo vale soprattutto per l’Italia. Parlo dell’Italia non perché mi stia più a cuore della Germania o dell’America, ma perché gli italiani sono la parte del genere umano con cui mi trovo naturalmente a contatto e su cui posso agire più facilmente. Gli italiani sono un popolo fiacco, profondamente corrotto dalla sua storia recente, sempre sul punto di cedere a una viltà o a una debolezza. Ma essi continuano a esprimere minoranze rivoluzionarie di prim’ordine: filosofi e operai che sono all’avanguardia d’Europa. L’Italia è nata dal pensiero di pochi intellettuali: il Risorgimento, unico episodio della nostra storia politica, è stato lo sforzo di altre minoranze per restituire all’Europa un popolo di africani e di levantini. Oggi in nessuna nazione civile il distacco fra le possibilità vitali e la condizione attuale è così grande: tocca a noi di colmare questo distacco e di dichiarare lo stato d’emergenza.

Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti. Contrariamente a quanto afferma una frase celebre, le rivoluzioni riescono quando le preparano i poeti e i pittori, purché i poeti e i pittori sappiano quale deve essere la loro parte. Vent’anni fa la confusione dominante poteva far prendere sul serio l’impresa di Fiume. Oggi sono riaperte agli italiani tutte le possibilità del Risorgimento: nessun gesto è inutile purché non sia fine a se stesso. Quanto a me, ti assicuro che l’idea di andare a fare il partigiano in questa stagione mi diverte pochissimo; non ho mai apprezzato come ora i pregi della vita civile e ho coscienza di essere un ottimo traduttore un buon diplomatico, ma secondo ogni probabilità un mediocre partigiano. Tuttavia è l’unica possibilità aperta e l’accolgo.

Se non dovessi tornare non mostratevi inconsolabili. Una delle poche certezze acquistate nella mia esperienza e che non ci sono individui insostituibili e perdite irreparabili. Un uomo vivo trova sempre ragioni sufficienti di gioia negli altri uomini vivi, e tu che sei giovane e vitale hai il dovere di lasciare che morti seppelliscano i morti. Anche per questo ho scritto a te e ho parlato di cose che forse ti sembrano ora meno evidenti ma che in definitiva contano più delle altre. Mi sarebbe stato difficile rivolgere la stessa esortazione alla mamma e agli zii, e il pensiero della loro angoscia è la più grave preoccupazione che abbia in questo momento. Non posso fermarmi su una difficile materia sentimentale, ma voglio che conoscano la mia gratitudine: il loro affetto e la loro presenza sono stati uno dei fattori positivi principali nella mia vita. Un’altra grande ragione di felicità è stata l’amicizia, la possibilità di vincere la solitudine istituendo sinceri rapporti fra gli uomini.

Gli amici che mi sono stati più vicini, Kamenetzki, Balbo, qualcuna delle ragazze che ho amato, dividono con voi questi sereni pensieri e mi assicurano di non avere trascorso inutilmente questi anni di giovinezza.”

 Giaime